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tempo di vendemmia

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Il tempo di vendemmia nel Salento, terra baciata con generosità dal sole, si protrae fino ad ottobre inoltrato.
Si parte al mattino presto per raggiungere i poderi coltivati a vigneti, chi col trattore, chi con le tine, chi col secchio e la fedele cesoia.
Le donne escono da casa ben coperte perché la mattina alle 5, le 6, l’aria è talmente fresca che bisogna proteggersi per affrontare la strada e quando si arriva nell’appezzamento di terra, le dita sono ancora addormentate…e anche le membra, obbligate a destarsi in modo quasi traumatico.
Le donne raccolgono i loro capelli in ampi fazzoletti annodati sotto il mento o annodati dietro la nuca.
Il padrone dà disposizioni su come si debbano sistemare tra i filari…lui ben conosce il filare meno produttivo, quello che ,invece, porta molto frutto. Abilmente dispone le donne meno svelte nei filari meno carichi d’uva, perché alla fine, quando si esce dall’altra parte del vigneto, si porta a termine cioè, il taglio di tutto il filare, le donne devono essere tutte compattate. Si riprende cioè tutte insieme a tagliare l’uva del successivo pezzo di terra, e i conseguenti filari.
Le donne che si ‘RRENNUNU RéTU” ( cioè, che restano indietro) sono fatte segno di frecciatine e battute da parte delle altre operarie, e da parte degli uomini che devono svuotare i secchi nelle tinelle. Non so se mi riesco a spiegare. L’addetto a svuotare i secchi,( lu cuf’natore) non può andare a cercare la donna ritardataria per svuotare il suo secchio…è tutta una questione di coordinamento, tutto si svolge con celerità, perché il podere è vasto, l’uva da tagliare è tanta e le ore trascorrono veloci, la resa del lavoro diventa meno vantaggiosa per il datore di lavoro.
Col passare delle ore si sente la carezza del sole che diventa più aggressiva: si suda, fa caldo, si ha sete, ci si vorrebbe lavare le mani perché sono intrise di succo d’uva, zuccherino e arrossante. Specie se si tratta di Primitivo. Se nel mezzo del terreno c’è un pozzo, quasi sempre e in tutti i poderi c’è, ci si ferma a lavarsi un po’ le mani, a lavare qualche grappolino che è piaciuto, e che si è serbato nelle tasche fino a quando sarà possibile gustarlo. Ci si libera di qualche indumento di troppo, si lascia vicino al pozzo o nella “Torre” una piccola costruzione di pochi metri quadrati, presente in quasi tutti i terreni coltivati a frutto. Nel frattempo La Via Nova, la strada statale che conduce nei paesi si popola di trattori, ieri si popolava di traini, che trasportano l’uva nelle Cantine sociali, o nei “paramienti” (palmenti familiari, privati), affinché il secondo ciclo della produzione del Vino…abbia seguito, con tutto l’amore e l’attenzione, e la competenza che gli agricoltori riservano alla produzione del nettare degli Dei.

12 pregiudizi da sfatare sull’olio extra vergine d’Oliva

Ricevo questo interessante articolo dall’amico Pino Nigro e lo condivido con voi, sapendo che siete di buona forchetta e fedeli all’Olio extra Vergine di oliva che si produce nei nostri frantoi salentini!

naturalmente ringrazio il signor Nigro e lo invito a visitare il “Nostro” Blog sui sapori della nostra Terra! (Con qualche variante i tanto in tanto).Olivo e papaveri presso Il Feudo

Dodecalogo: 12 pregiudizi da sfatare sull’olio extra vergine d’Oliva, è falso che…
Lo sapevate che 10 gr di olio di semi (tutti) hanno la stessa quantità di kcal dell’olio extra vergine di oliva?
© NEWSFOOD.com – 01/07/2010
27 giugno 2010, Sarnico, siamo al Cocca hotel, in occasione de “L’Oro in Bocca” e ne approfittiamo per conoscere tutto ciò che possiamo su questo nostro ORO, protagonista della piramide alimentare della dieta mediterranea.
Tra i tanti esperti di olio Marco Antonucci, giornalista e Capo Panel, Fiorenzo Cortinovis, Dirigente Medico U.S. Dietologia Clinica a Bergamo, Silvano Ferri, Presidente federDop Olio e Benedetto Orlandi, responsabile del settore olivicolo della Coldiretti e Presidente Copa-Cogeca. Proprio a lui, a Benedetto Orlandi, chiediamo di fornirci un decalogo, anzi un dodecalogo in quanto sono 12 le false credenze da sfatare:

1) L’ olio extra vergine di oliva è più grasso dell’olio di semi.
FALSO
Tutti gli oli contengono la stessa quantità di grasso e apportano 9 K/cal per grammo. L’olio extravergine di oliva non è più calorico di quello di semi, anzi, poiché risulta più saporito e viscoso ne è sufficiente una minor quantità.

2) L’olio extra vergine di oliva è più pesante e quindi meno digeribile degli oli di semi.
FALSO
L’olio extra vergine di oliva è il più digeribile fra gli altri oli e non ha controindicazioni.

3) L’olio di semi è l’olio più adatto per la frittura.
FALSO
L’olio extravergine di oliva resiste meglio alle alte temperature.

4) La padella è un tegame adatto per friggere.
FALSO
La forma larga e bassa del recipiente fa si che l’olio contenuto abbia un’ampia superficie di contatto con l’aria, ossidandosi rapidamente. E’ preferibile utilizzare un recipiente stretto e profondo.

5) L’olio extra vergine di oliva scaduto è dannoso per la salute.
FALSO
Non è dannoso, presenta caratteristiche nutrizionali inferiori e può presentare caratteristiche organolettiche non gradevoli.

6) Le bottiglie di vetro trasparente sono i contenitori più adatti per la conservazione dell’olio.
FALSO
Le bottiglie di vetro scure, i contenitori di alluminio o a banda stagnata o di acciaio inox sono i più adatti in quanto l’olio è protetto dalla luce che catalizza l’ossidazione molto rapidamente.

7) Qualsiasi ambiente è adatto per la conservazione dell’olio extra vergine di oliva.
FALSO
La conservazione deve avvenire in ambienti a temperatura costante (+ 15/18 °C, al buio, evitandola vicinanza di sostanze facilmente assorbibili dall’olio (detersivi profumati, aceto, salumi, ecc.),. Le confezioni utilizzate durante l’uso quotidiano, vanno tenute lontane da fonti di calore, rinchiuse con cura.

8) La qualità dell’olio extra vergine di oliva è determinata esclusivamente da fattori naturali.
FALSO

I fattori identificabili con le pratiche colturali dell’olivo e la conservazione delle olive prima della molitura , influiscono in maniera determinante sulle caratteristiche dell’olio, per cui la qualità nasce dal campo, e viene preservata in frantoio.

9) Un olio extra vergine di oliva di qualità è anche tipico.
FALSO
E’ tipico solo se possiede delle caratteristiche organolettiche (sapore, odore, colore) peculiari, derivanti essenzialmente dall’ambiente geografico e dalle caratteristiche varietali da cui trae origine.

10) L’Amaro è una caratteristica sensoriale negativa dell’olio extra vergine di oliva. FALSO
E’ un sapore caratteristico dell’olio ottenuto da olive prevalentemente verdi appena invaiate, quindi è un carattere positivo.

11) Il Piccante è una caratteristica sensoriale negativa dell’olio extra vergine di oliva.
FALSO
E’ una sensazione pungente caratteristica degli oli ottenuti all’inizio della campagna e da olive ancora verdi, quindi è un carattere positivo.

12) L’Acidità dell’olio extra vergine di oliva viene percepito con il gusto.
FALSO
Non è percepibile a livello gustativo, ma solo attraverso un’analisi chimica e rappresenta la percentuale di acido oleico libera.

Ringraziamo il Dott. Benedetto Orlandi per il prezioso contributo e auspichiamo che sempre più si voglia istruire il consumatore per aiutarlo ad acquistare con serenità e maggiore consapevolezza.

Giuseppe Danielli
Newsfood.com

LI LAMPASCIUNI

a>lampasciuni fritti copia
Li sere ti lu ‘nviernu, si stava ‘nturnu alla fracera. Ci tinemmu nna patana si mitteva a rrostre ‘ntra lla cennere, quannu lu fuecu vivu s’era cunsumatu nnu picca!
Ci po’ tinemmu do lampasciuni era megghju ancòra.
Quannu si rrustevnu li lampasciuni nonci si pulizzavunu assai. Si mittevnu zzimpati ‘ntra la cravunedda e si giravunu ogni tanta. Quannu ernu rrizzatu nnu picca e l’ardoru ti pigghjava lu stomm’cu, si llivavunu quiri figghiazzi di fore fore e si ccunzavnu cu sale e uegghju.
A ttanima li piacevnu fritti cu llu uevu.
Ogni tanta ni purtava nna francata ti campagna e si ni vineva allegr’allegre comu sia ca era acchjatu turnisi t’oro.
Li lampasciuni però, prima cu ssi cucinavnu, si mittevnu armenu nna nuttata a bagnu, cu spurgavnu tuttu quiru amarore ca tenev’nu!
All’indomani, si canciava doi tre vote l’acqua e si llissàv’nu pi nna bbona menz’ora.
Si passavnu intra nna pastella cu nnu uevu, farina e acqua e si fricevnu!!!!
Matonna mea quant’ernu bbueni.
Sulu dopu ca ti l’iri manciatu ti n’addunavi ca quisti cipuddazzi tènunu certi effetti collaterali ca è megghju ca nonci vi lu ticu!

come aprire i fichi d’India senza pungersi!

Come aprire i fichi d’India senza pungersi? E’ facile!

1) Prendete dei fichi d’India, lavarli velocemente e, in seguito sciacquare più volte il lavello per asportare eventuali spine. Metterli in una scodella. Disponetevi su un piano “operativo”. (ah! ah! mi piace assai questo termine)

prendete dei fichi d'india

2) infilzate con la forchetta un fico d’India e posatelo sul piano di lavoro, praticate un taglio alle due estremità del frutto, vedi foto:

Praticate dei tagli

3) fate un taglio sulla parte centrale della corteccia del frutto

poi un taglio trasversale

4) infilate la lama del coltello tra la buccia e il frutto e fate ruotare leggermente fino a scorticare il frutto totalmente

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5) et voilà il fico d’India è servito e non resta che gustarlo…con parsimonia, mi raccomando!.

il fico è servitojpg

Si consiglia di sorseggiare un buon vino bianco freddo durante la degustazione di questi straordinari frutti per sentire un retrogusto, che vi garantisco, inebriante!

accompagnare con..

I Fichi d’India

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Ieri ho avuto la possibilità di fare un vero e proprio Safari fotografico.
Soggetto privilegiato sono stati i fichi d’india… E’ straordinaria la capacità della nostra madre Terra e specialmente la Nostra terra sanguigna del Sud, di produrre frutti e fiori in ogni stagione…Infatti se i vigneti dominano il paesaggio rupestre , le zone destinate alle colture che separano un paese dall’altro, e i possenti Ulivi sono parte inscindibile del territorio salentino, gli albero di fico che sorgono spontanei sui cigli delle strade, si intonano armoniosamente ai larghi cespugli di fichi d’india dalle larghe pale tondeggianti e trapuntate dai coloratissimi frutti.

Il fico d’india appartiene al genere Opuntia che è sicuramente il più rappresentativo della famiglia delle Cactaceae. Comprende più di 300 specie proveniente delle zone tropicali dell”America ed in particolare del Messico dove sono stati ritrovati dei fossili risalenti al settimo millennio a.C.
In particolare questo genere è originario delle zone desertiche tanto che fa parte di quel vasto gruppo di piante chiamate “Piante del deserto”, adattate quindi a vivere in condizioni proibitive: sole molto caldo di giorno e notti spesso fredde se non gelide. Sono quindi adattate a vivere anche in condizioni che farebbero morire qualunque altra pianta. Ciò e possibile grazie alla struttura dei loro fusti che sono in grado di catturare ed immagazzinare l’acqua che non viene dispersa grazie alla loro conformazione anatomica.
I loro frutti, saporitissimi, assumono svariate colorazioni: rosso cardinale, arancio, giallo bianco etc.etc. Le infiorescenze sono sempre Gialle, che a me paiono piccolo calici di luce, fragili, nella loro conformazione e bellissimi da fotografare.
“Cuore dolce in un involucro di spine”, ecco cosa pensavo ieri, mentre nella tarda mattinata ho avuto anche la sorpresa di gustarli, opportunamente ripuliti dal loro involucro, e aperti con grande bravura dal nostro ospite, presso il quale abbiamo gustato quelli e ancora tante prelibatezze che la nostra cucina salentina è capace di offrire a quanti la sanno apprezzare.

CUCUZZA ALLA PUVIREDDA

cucuzza alla puviredda - Copia

La cucuzza nonci ha statu mai calculata ‘ntr’alla cucina ti lu paisu.
Li mariti, quannu si ritiràvunu ti la fatia e acchjàvunu cucuzza, turcèvunu lu musu.
E tinèvunu raggione piccè la cucuzza ete senza sustanza …e po’ ete totta acqua!
Ste puru nu pruverbio ca tici ”la cucuzza si coce cu l’acqua sova stessa”.
Eppuru si po’ cucina’ ti tanta manére!
N’otru pruverbio tici “comu la faci faci è cucuzza!”
E’ inutile! Questa pòvera cucuzza, puru ci ete tanta bona, nisciunu la po’ vite’.
Mama la cucinava spritta e tagghjata a pizzetti grossi. La faceva sprìcere ‘ntr’allu uegghju, la vutava e la girava finu a quannu ‘rrussava! Alla fine ti la cuttura minava nu uevu, lu sbatteva ‘ntr’alla patella stessa e la faceva quagghja’!
L’ardoro però ca si sinteva ‘ntra casa era megghju ti quannu cucinavi maccarruni e carne!
Mitteva puru nu picca ti formaggiu e na figghjazza ti menta ca ‘ntra li uerti nuestri no mancava mai!

“La santa Monica”

Congelati di guerra

AGOSTINO-E-MONICADEF[1]

Il 27 di agosto la chiesa cattolica ricorda Santa Monica, madre di Sant’Agostino.
Questa data non dirà molto ai più giovani, ma chi ha superato gli “anta” da un bel po’ e ricorda quando le sere di estate si trascorrevano seduti in compagnia davanti all’uscio di casa e non davanti alla TV, di Santa Monica forse si ricorda.

Si ricorderà, forse, di un rito conosciuto e praticato in particolar modo dalle nostre mamme e nonne.

Santa Monica, madre premurosa in maniera esemplare, aveva fatto voto di non abbandonare il figlio Agostino nelle sue peregrinazioni finchè questi non si fosse convertito al cristianesimo; la tenacia e la perseveranza della madre compirono il miracolo e Agostino finì per battezzarsi. Santa Monica ritenne così di aver compiuto con ciò la propria esistenza terrena e si spense serenamente ad Ostia, vegliata dal figlio, futuro padre della Chiesa.

La fede popolare quindi vede in questa santa una mediatrice per ricevere notizie riguardanti i figli dispersi e perduti. Pertanto ci si rivolgeva a Lei per ottenere notizie tramite delle preghiere e una specie di invocazione, formulata dalla stessa fede popolare .
Vi spiego…
Il rito si dovrebbe fare la notte fra il 26 e il 27 agosto, ma si può fare alla mezzanotte di qualsiasi giorno ed è molto semplice:
si tratta di recitare 1 Pater, 1 Ave, 1 Gloria e si prosegue con l’invocazione a Santa Monica:

“Santa Monica pietosa,
santa Monica lacrimosa;
a Roma andasti e da Milano venisti;
e come portasti notizie del tuo figliolo,
così portami notizie di… ”

( si chiede notizie della persona amata)

Recitate le orazioni si restava in ascolto, trepidanti, per trarre l’oroscopo lieto o triste dei propri affanni, delle proprie speranze, dai fatti che si svolgono giù per la strada ed oltre, qualsiasi manifestazione esterna vista ed udita sarà considerata un segno rivelatore: ciò che dicono i passanti, un canto di uomo o donna, un pianto di bambino o adulto, una risata allegra o sghignazzata, una porta sbattuta violentemente, un cane che abbaia, il fischio del treno ed anche gli elementi atmosferici, cioè pioggia, vento, temporale, eccetera.

Naturalmente oggi questo potrebbe far sorridere molti ed altri avranno pronte spiegazioni che parlano di suggestione, superstizione e quant’altro.
Per quanto mi consta personalmente, mia nonna Rata (Addolorata) praticò questo rito e ebbe notizie del figlio Antonio, disperso in guerra nell’ultimo conflitto mondiale.
E seppe che era vivo ma era rimasto gravemente ferito. Cosa vide esattamente non l’ho mai saputo, ma mi rimane il vago ricordo di come lei cadde in una specie di abbattimento morale dal quale si riebbe soltanto quando il figlio fece ritorno definitivamente a casa, con i piedi ridotti a moncherini a causa di un grave congelamento ad ambedue gli arti inferiori.

cannicci

fichi tostatifichi in essiccazionefichi al solefichi secchicannizzi

Non passa giorno che i miei amici non mi ricolmano di delizie…ieri ho avuto quasi 5 kg di fichi, ed io sono troppo golosa per ignorarli. purtroppo questi frutti di cui la campagna salentina sovrabbonda, sono delle vere e proprie Bombe energetiche.
Quest’anno ho pensato di essiccarne la maggior parte o regalarne a mia volta ai miei amici che come me ne vanno ghiotti!
Mio marito invece li adora tostati al forno, con o senza mandorle. Essiccarli comporta un po’ d’impegno
ma per l’amore che gli porto mi sono avviata in questa difficile, impegnativa e dolce tradizione del fichi ‘ccucchiati!

I fichi freschissimi si affettano facilmente, anche se ogni fico che taglio dice ” mangiami mangiami” si dispongono sui cannicci (stuoie di canne) che fanno parte della tradizione contadina e si trovano in quasi tutte le case.
Le canne, tagliate dai canneti che sorgono sui cigli delle stradine di campagna, vengono assemblate e “cucite” tra loro col filo di ferro. le canne così lavorate permettono l’areazione dei prodotti che vengono messi ad essiccare favorendone una perfetta essiccazione. Ci vuole però la pazienza di girare ogni giorno i frutti per farli maturare da ambedue i lati. Il cocente sole di questi giorni consente una veloce “seccatura” dei prodotti… ogni sera bisogna ritirare i cannicci, o coprirli con una telo, onde evitare che animali notturni facciano libagioni notturne….la mattina si scoprono…se viene a piovere improvvisamente si corre subito sul terrazzo a mettere al riparo i frutti esposti al sole…insomma Un casino! aahahah!

Lu massarieddu di Faggiano (introduzione)

foto dal web

Amici, premesso che siete tutti in ferie, premesso che non si ha tempo per sfogliare pagine dei blog degli altri, premesso che anche se si sfogliano pagine e post nessuno ha la bontà di lasciare un cenno di saluto e di gradimento, semmai ve n’è stato, mi corre l’obbligo di informarvi che Faggiano è un ridente paese che sorge vicino al mio e anche questo paese è immerso in un lago di luce e di tranquillità. Tale luce e tale tranquillità la infondono nel forestiero che vi transita, specialmente in tempo d’estate. Faggiano infatti dista appena sei Km dal mare e appena dodici dal Capoluogo, Taranto.

La luce e la tranquillità di cui vi parlavo è distribuita equamente nei pochi km che separano il mio paese d’ origine, San Giorgio Jonico e Faggiano, passando per il piccolo agglomerato di case che va sotto il nome di Roccaforzata.
Cosimo Quaranta così lo descrive: “Come falco regalmente artigliato su una roccia, svetta, naturale sentinella di Taranto fin dal IV secolo,la nobile Roccaforzata”

Faggiano invece sorge all’ombra di quella “roccia” (Lu Monte ti la rocca) ed è preceduto da un fertile faggeto dal quale prese il nome.

Attraversando queste stradine di campagna che fungono da cerniera tra un paese e l’altro si possono scorgere distese verdeggianti di terreni coltivati a uliveti, vigneti, frumento e frutteti.

Qua e là si scorgono alcune vecchie “Torri” che davano ristoro al contadino e gli consentiva di ripararsi dalle improvvise piogge primaverili. Nella Torre si riparava la bicicletta, o L’Ape, o il tascapane con un tozzo di pane e formaggio per rifocillarsi a metà giornata e l’immancabile Vummile di cui ho già, più volte, parlato.

La torre è una stanza di pochi metri quadrati, rustica, ma cosa sorprendente, era sempre dotata di Fumaiolo.
Cosa non aveva mio padre in quella sua vecchia torre. E’ impensabile oggi, a distanza di anni dalla sua dipartita e la relativa vendita di quel piccolo vigneto, poterne fare un inventario attendibile.
facendo appello ai miei vaghi ricordi proverò a descrivere quell’emporio privato e confortevole! Una vecchia Radio, una sedia sdraio malconcia, secchi, panarieddi, zappe, rafia, cerotti per empiriche medicazioni,lu”mpiciato” ahahhaahha! ma tu guarda anche una pepita di vocabolo m’è toccato di ricordare. Lu ‘mpiciatu era un vecchio impermeabile che mio padre indossava alle prime luci dell’alba, quando si recava nella vigna e questa era ancora tutta madida di brina notturna.

Bene, penso di dover sospendere questa lunga introduzione al vero e proprio post annunciato nel titolo…Lu massarieddu… l’ho ritenuta necessaria e propedeutica.

Sì, domani forse, o tra qualche giorno, vi racconterò una storia degna della penna del De Amicis!

Lu laùru

Carretto1]

Laùru – Folletto, spiritello della casa. Molte sono le leggende popolari che si raccontavano sulle stranezze di questo folletto l’inverno attorno al braciere o nelle sere d’estate seduti sull’uscio di casa. I racconti relativi a questo strano personaggio, a cavallo tra la fantasia e la realtà, avevano tra i protagonisti favoriti le donne, gli uomini e i “travinieri” o perlomeno coloro che possedevano un cavallo o un somaro.
Accadeva infatti che di buon mattino, quando non era ancora giorno, il contadino si recasse nella stalla a ”governare” la sua bestia prima di intraprendere una lunga giornata di lavoro, e vi trovasse alcune stranezze che con la sua semplice ragione non sapeva giustificare. La coda del cavallo abilmente intrecciata o annodata, i secchi con la biada capovolti e rovesciati per terra, le stringhe delle scarpe legate in maniera intricata e berretti da notte sottratti inspiegabilmente ai rispettivi proprietari.
Le donne erano prese di mira dagli interventi del laùro molto più che gli uomini. Questo invisibile spiritello della casa amava trastullarsi piacevolmente, tormentando non poco le donne, procurando loro dispetti di ogni genere. La notte si sedeva sul loro stomaco procurando sensi di pesantezza e di soffocamento, tirava loro le coperte di dosso, scarmigliava i loro capelli e li annodava o intrecciava in maniera intricatissima e la povera sfortunata, per non ricorrere alla forbici era costretta ad impiegare moltissimo tempo per recuperare integra la sua chioma. I crampi notturni alla estremità ? Erano opera del Laùro, naturalmente.

Si racconta che moltissimi anni fa, una famiglia decise di traslocare per sottrarsi ai disagi che questo folletto procurava loro.
Era il giorno di Santa Maria, il 15 agosto, giorno in cui scadevano i contratti d’affitto. La famiglia caricò tutte le masserizie sul travino e fece con questo mezzo di trasporto tutti i viaggi necessari per trasferire nella nuova casa le povere cose, i poveri mobili. Nell’ultimo carico montarono su la moglie, le suocera e i tre figli…portavano anche “lu catarieddu” con qualche tegame di terracotta essendo oggetti preziosi per la vita della famiglia… Ad un certo punto, mentre arrivarono a pochi isolati dalla nuova casa, incontrarono un conoscente che gridò al loro indirizzo” Wè cumpa’ Mimi’, ce ste faci’? addò ste ve’???” Ma prima che l’interpellato avesse modo di rispondere, si alzò come per incanto il coperchio della caldaia e uscì una testa strana di folletto mai visto prima che rispose” stà scasamu ca addà nonci putemmu sta’ cchiù”.